Texts

CORALE. Endlessssssssong

CORALE. Endlessssssssong è un componimento di 8 tracce audio nato dall’intreccio di canti umani e di diverse specie di cetacei.
Il lavoro si è sviluppato durante un periodo di residenza a Buenos Aires e un viaggio nell’area della Penisola di Valdés nella provincia di Chubut, in Patagonia.
La successione di tracce mescola canti, lamentazioni, nenie funebri, loquele e lallazioni umane con unità vocali, versi, fraseggi, temi e canti di megattere, delfini, beluga, orche e soprattutto balene franche australi, cetacei che migrano nelle coste dell’oceano argentino.
La fusione di queste sonorità è stata ulteriormente impastata con moltissime registrazioni effettuate nella città di Buenos Aires, il cui paesaggio acustico è stata un’importante esperienza sensoriale.
Tutte le tracce sono state concepite insieme, cresciute come un unico super-organismo, dove il concetto di “crown shyness”, particolare fenomeno di crescita vegetale, è diventato matrice e metafora di elaborazione.
La cosiddetta “timidezza delle chiome” che vede piante della stessa specie crescere insieme in uno spazio limitato senza toccarsi, è una sorta di paradigma geopolitico naturale, di rispetto e tutela di uno spazio di crescita personale, un’etica di libera coesistenza.
Sotto il segno di questa prossimità e qualità relazionale, le tracce sono state concepite come un corpus unico, un album, un film sonoro, un insieme di suggestioni e modulazioni che si accostano e si sfiorano riprendendo sempre le timbriche e le temperature appena chiuse nella traccia precedente.
Di volta in volta, ogni segmento si genera dalle polveri e dai residui lasciati dalla modulazione precedente per aprirne ulteriori sviluppi. L’ultima sezione, che in un ‘reprise’ tocca l’apertura del componimento tornando alle atmosfere iniziali, esplicita una sorta di inviluppo e di svolgimento circolare, mostrando un andamento senza fine, un loop interno.
Il sottotitolo stesso è un gioco onomatopeico che distende in un lungo sibilo la ’S’ finale di ‘ENDLESS’ e quella iniziale di ‘SONG’, e lo fa per quel numero di volte che rovesciato diventa il simbolo algebrico dell’infinito.

 

I materiali audio utilizzati sono stati raccolti in maniera onnivora da differenti fonti: video amatoriali, documentari, podcast, piattaforme e archivi online, registrazioni eseguite personalmente o rintracciate via app, documenti che mi sono stati suggeriti o inviati.
Tutto l’editing digitale prevedeva che regolarmente i file venissero spostati da un device ad un altro attraverso delle registrazioni fisiche che non implicavano trasferimenti via bluetooth o download.
Ogni volta che un file doveva essere utilizzato veniva prima ri-registrato da un dispositivo ad un altro. Nell’acquisizione entravano così tutti i rumori di un paesaggio sonoro limitrofo, un layer di inquinamento e di sporco acustico che nella sua addizione ha dato alla composizione una timbrica ovattata, amniotica, quasi densa o subacquea. Un sottofondo che come una patina di profondità o un filtro, ha creato un’amalgama di rumore, un aumento dello spessore delle modulazioni.
Molti di questi trasferimenti tra i dispositivi di registrazione sono stati effettuati in diverse stanze da bagno, luoghi che per eccellenza sono connotati da rigidi rivestimenti, specchi e vetri che aumentano riverberi, rifrazioni e da forme concave che per vocazione enfatizzano echi ed acustiche singolari.

 

In tutte le tracce compaiono sempre le vocalizzazioni delle balene franche australi, come pulsazioni a bassa frequenza che in alcune varianti diventano dei mantra ossessivi e vagamente ipnotici. Dei richiami utilizzati sono voci “fantasma”, campionature effettuate negli anni ’70 che sono rimaste archiviate nei database di fondazioni, centri di ricerca, musei e che ovviamente appartengono a individui difficilmente in vita.
Nella composizione inoltre sono state usate lunghe sequenze di potenti espirazioni. I geyser che le balene emettono per respirare sono simili a violenti getti d’aria prodotti in tubi cavi e risuonano come colpi di clacson pneumatici.
Importantissimo e di grande suggestione è stato inoltre l’impatto con il vento della Patagonia che disturba e satura le frequenze in ogni tentativo di registrazione.
Molte sono le campionature che arrivano dalla città, dai white noise dei condizionatori, ai compressori degli autobus, dal traffico alle sirene di emergenza, dai vagiti dei gatti in lotta ai canti degli uccelli. Precisa invece la scelta delle melodie umane utilizzate: in particolare una cantica rituale del Salento, una lamentazione funebre abruzzese, una nenia montana veneta, materiali che sono stati deformati come in uno stretching fino a raggiungere la tipica timbrica di un lettore di nastri magnetici che affaticato arranca e procede a stento, ricordando le sonorità di una radio immersa sott’acqua, di un walkman con le batterie esauste, che affonda, perde forza e si inabissa.
Strappi e altri segmenti audio sono stati presi in prestito da tracce jazz, post-punk, post-rock, di drone music, di techno ambient, di dark ambient, tutti liberamente elaborati e plasmati, spesso sovrapposti con insistenza.

 

Questo racconto, questo album si apre sotto l’effetto di un’incantesimo quasi stregato, con la voce rallentata di un’anziana che esegue la moroloja salentina. La lamentazione resta nello sfondo intricata di lunghi gemiti felini e profonde pulsazioni di balene.
Le sonorità si impastano e diventano sempre più lontane ed intense, gonfiando la famosa ‘Mara Maje’ di inesorabile lentezza e profondità.
Nel terzo movimento un vago jodel esplicita tutto il vuoto tra i picchi e le guglie di un mondo sommerso, registrato a finestre aperte sotto un diluvio torrenziale.
Il canto perde qualsiasi riferimento verbale o riconducibile ad un linguaggio decifrabile, la presenza umana viene resa sempre meno identificabile e il disturbo esterno diventa più persistente e incisivo. Il coro si approssima ad una biofonia, ad una fonologia animale.
Per un attimo si fa pura vulnerabilità che sfiora la commozione, incessante richiesta d’aiuto, un’implorazione, un momento di struggente solitudine e smarrimento.
A mano a mano che procede l’audio lentamente si increspa, arrivano muggiti, grugniti, bramiti, rutti, smorfie, caos, tantissimi sbuffi e grida lanciate da uccelli in fuga che si sovrappongono ai fragori di un vento oceanico prossimo ad un bombardamento bellico che riempie e acceca ogni possibile frequenza.
Una mischia stipata di suoni si attorcigliano, si sbattono e si cancellano l’un l’altro, senza tregua.
Il penultimo movimento placa lentamente il tumulto e spalanca grandi spazi desertici che si popolano di lontani richiami superstiti e deboli colpi gutturali.
Tutto sembra avvolto da un grande vuoto e da un imminente sentimento di fine.
L’outro è un grumo di voci fantasma che rimanda ad un nuovo sortilegio.

 

***

 

CI SONO CANTI NEL MONDO CHE SI ELEVANO PER ESSERE ASCOLTATI.
APPUNTI PER UN’INTRODUZIONE

Il mondo sommerso è un mondo pieno di richiami, di versi, di musicalità proprio perché l’acqua ha una particolare vocazione alla trasmissione sonora, una velocità di propagazione delle frequenze quattro volte superiore a quella dell’aria.
Tutte le specie che vivono in acqua usano il suono per comunicare e hanno sviluppato specifiche capacità per vedere acusticamente: riescono ad esempio -come nel caso del sonar- a crearsi delle mappe diffondendo intorno a loro dei segnali che possono riascoltare ed usare per orientarsi e capire ciò che gli sta intorno.
Tutto quello che noi facciamo con lo sguardo, la vita sottomarina lo gestisce con l’acustica.
Le teste dei cetacei, che siano essi capodogli, balene, megattere, orche, delfini, beluga sono delle formidabili casse di risonanza che si sono evolute attraverso il perfezionamento di labbra foniche, sacche craniche, sacche distali, narici, sfiatatoi, complessi amplificatori che arrivano a produrre i suoni più potenti del regno vivente.
Una grande parte di queste frequenze come gli infrasuoni o gli ultrasuoni sono fuori dalla portata umana ed è paradossale come questi concetti siano in realtà delle definizioni antropocentriche: moltissimi animali arrivano a sentire, comprendere e usare sonorità impossibili da percepire per l’orecchio umano. Un cane ad esempio ci raddoppia nella possibilità di ascolto, i topi ci quintuplicano, alcuni delfini arrivano a sentire suoni fino a 150 kHz.
Siamo circondati da informazioni e da dati che non possiamo esperire, da frequenze che non sentiamo, da colori che non vediamo. Gli animali si dicono cose che non possiamo sentire, vedono cose che non possiamo vedere.
Il mondo non è fatto per la sola umanità.

Fino agli anni cinquanta del ‘900, il fatto che una balena potesse cantare era del tutto ignoto agli esseri umani. I militari statunitensi che avevano cominciato ad ascoltare i sottomarini russi rimasero stupefatti quando capirono che gli strani suoni che stavano captando con gli idrofoni provenivano dalle balene. La notizia arrivò agli scienziati Roger Payne e Scott McVay, studiosi di comunicazione animale.
Le balene producono una serie di suoni per un periodo che va dai pochi secondi alle intere giornate, attraverso una sintassi fatta di unità vocali, sottofrasi, frasi, temi e sequenze di temi, spesso ripetuti con considerevole precisione.
La funzione dei canti è sconosciuta, ma contengono al loro interno elementi che costituiscono temi modulati in un ordine specifico – delle vere e proprie rime che vengono prolungate per ore e ore, respirando a fine o nel mezzo del canto senza mai interromperlo.
Tutti gli individui intonano lo stesso canto, che cambia però a seconda degli oceani e si evolve negli anni.
Sono voci eteree e ultraterrene che creano un punto di contatto nella relazione tra l’umanità e la vita del pianeta. Particolarmente incantate ed evocative, sono la celebrazione di un mondo abissale, ovattato, amniotico.

I primi vinili ad essere pubblicati, a firma di Roger e Katherine Payne, “Songs of the Humpback Whale” nel 1970 e il suo sequel “Deep Voices – The Second Whale Record”, 1977, furono dei veri e propri dispositivi di sensibilizzazione ecologica mondiale. Il successo di queste registrazioni fu così importante da scuotere le coscienze e innescare una forte mobilitazione a favore della difesa delle balene.
Dieci milioni di copie di “Songs of the Humpback Whale” furono inserite nel solo numero di gennaio 1979 del National Geographic, distribuito in tutto il mondo in 25 lingue.
I canti di questi grandi animali furono riconosciuti come uno statuto identitario del pianeta Terra e incisi nel “Voyager Golden Record”, un vinile placcato oro inserito nella sonda Voyager e contente una sintetica compilation dei suoni della Terra: un biglietto da visita che l’umanità ha inoltrato nello spazio interstellare con i saluti in tutte le lingue del mondo, schemi di principi chimici e differenti registrazioni dei fenomeni naturali.

Le balene furono i primi pozzi di petrolio; gli arpioni delle baleniere, le prime trivelle. La caccia alle balene che dalla metà del ‘700 ha letteralmente svuotato gli oceani, è stata un vero e proprio ecocidio che ha portato molte specie sull’orlo dell’estinzione.
Il grasso delle balene veniva macellato dai balenieri e distillato per accendere lampade e lampioni, oliare macchine, lavorare tessuti e alimentare gli ultimi stadi della rivoluzione industriale.
L’olio che se ne estraeva forniva energia per far luce nel buio, cambiando irrimediabilmente quel bioritmo fisiologico basato sull’alternanza tra giorno e notte.
I nomi che i cacciatori hanno affibbiato a certe specie, raccontano del modo in cui si potevano sfruttare o considerare: orche assassine, pseudo orche, balene pigmee, capodogli (teste-piene-d’olio), right whale ovvero balena giusta – giusta perché facile da uccidere, lenta, grassa, la cui carcassa galleggiava e agevolava le operazioni di trascinamento a riva.
Il nome le ha consegnate ad un’immediata capitalizzazione e tecnicizzazione.
Come minimo, essendo l’animale più grande della terra, dovrebbe incutere timore e rispetto, invece l’uomo ne ha sminuito la mole, denigrato il valore, l’importanza, la comune discendenza dalla terra.
Oggi le compagnie petrolifere accampano pretese sugli oceani come fossero cosa loro e ancora l’energia ci arriva gravata da brutali violazioni: per procurarcela, modifichiamo l’equilibrio termico del pianeta, acidifichiamo i mari, inondiamo le coste, intensifichiamo i fenomeni atmosferici.
L’energia è sempre una questione etica.
Le foreste si contraggono, i ghiacciai si sciolgono, le praterie vengono asfaltate, gli incendi infuriano, i fiumi si seccano e i coralli muoiono – assistiamo ad una riduzione drammatica di tutti i principali habitat.
Stiamo influenzando sia le condizioni di vita di quasi tutte le creature del pianeta, sia la velocità con cui troppe di loro muoiono troppo in fretta.
La specie umana è prossima ad una incompatibilità con il resto della Vita sulla Terra.

CORALE è la proposta di una suggestione antispecista, simpatetica, atavica e subliminale, le cui voci vanno ascoltate. È la possibilità di un canto animale e umano in un tessuto urbano. L’evidenziarsi del disgregamento di qualsiasi gerarchia.

 

***

 

CROWN SHYNESS

La timidezza delle chiome (crown shyness) è un particolare fenomeno che assumono alcune piante trovandosi a crescere in una limitata porzione di terreno.
Esso consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano, andando a lasciare dei canali vuoti, degli spazi interstiziali che vanno a comporre quello che dall’alto è descrivibile come un mosaico, o dal basso un pattern di forme ben sagomate e delineate.

Ci sono diverse teorie che tentano di dare una spiegazione a questa modalità di crescita e hanno a che fare con ipotesi principalmente legate all’abrasione meccanica, alla fotorecettività e all’evoluzione adattativa.
Si pensa ad esempio che la crescita dei rami laterali sia influenzata da ciò che circonda la chioma dell’albero. In questo caso, specialmente nelle regioni ventose, il fenomeno di timidezza sarebbe una risposta indotta dall’attrito che si sprigiona tra chiome adiacenti. Una sorta di processo di autopotatura delle gemme che ne limiterebbe la crescita. Diversi esperimenti condotti in questa direzione hanno rivelato che se si evita artificialmente questo contatto, non si ha l’inibizione della crescita dei rami laterali.
Una seconda visione sarebbe correlata alla schermatura reciproca che le chiome hanno su quelle adiacenti. In questo caso la timidezza sarebbe dovuta al fenomeno di “fuga dall’ombra”, ben noto ai botanici. Le piante, tramite i propri fotorecettori (fitocromi), percepiscono la presenza di un albero vicino grazie al cambio di qualità di luce che raggiunge i fotorecettori stessi. Come conseguenza, la pianta smette di crescere lateralmente, preferendo invece una distensione verticale.
La più recente spiegazione per questo fenomeno invece riguarda un’ipotesi adattativa. Secondo alcuni scienziati lo spazio lasciato tra le chiome servirebbe a ridurre la possibilità di parassiti o animali erbivori di muoversi attraverso la foresta sfruttando le chiome. Col tempo, infatti, sarebbero state privilegiate quelle piante che crescevano mantenendo una certa distanza dalle chiome vicine. Questo verosimilmente permise a queste piante di ridurre gli attacchi di insetti erbivori o di diminuire la frequenza con cui venivano attaccate da parassiti.
Date le numerose ipotesi e la presenza di questo fenomeno in raggruppamenti di piante filogeneticamente distinti, gli scienziati pensano che la timidezza delle chiome sia un caso di convergenza evolutiva – meccanismo secondo cui si sviluppano indipendentemente comportamenti o caratteristiche simili in aree geograficamente molto lontane.

Qualsiasi sia la teoria che sottende questo fenomeno, l’immagine che regala dal un punto di vista estetico è sicuramente affascinante, ma ancora più potente è un suo risvolto metaforico, concettuale e “biopolitico”.
È una modalità di coesistenza, di rispetto di uno spazio personale, di privacy e di libera crescita contemporaneamente. Una dimostrazione di come la Natura sia capace di un’altissima politica, in grado di realizzare e preservare strutture di equilibrio, di produrre paradigmi di compatibilità, modelli di sostenibilità, esempi e forme dove singole individualità concorrono ad un’armonia collettiva, ad un’etica corale.
Sembra quasi che le piante abbiamo scelto di poter stare una accanto all’altra, in una decisione che richiede sforzo e perseveranza quotidiana, sotto il segno di un’intenzionalità cosciente applicata con costanza e mantenuta con diligenza, oserei dire con sentimento.

Il concetto di ‘crown shyness’ è diventato matrice, suggestione e metafora di elaborazione e di operatività.
Le modulazioni del componimento si sfiorano come le chiome degli alberi, stanno in prossimità, restie al tocco, si separano appena. Non si subordinano né si prevaricano, coesistono e si addensano intorno ad un’istanza creativa.
Sono cresciute contemporaneamente, senza una precisa sequenza temporale o una logica consequenzialità e per quanto sia imprescindibile all’ascolto una dimensione narrativa, restano momenti distinti, tracce con parabole proprie.

 

***

 

UN VIAGGIO DENTRO AL VIAGGIO. PENISULA VALDÉS

La penisola di Valdés è un’importante area naturalistica protetta, diventata patrimonio dell’umanità nel 1999, situata a nord della provincia di Chubut in Patagonia.
Ha la forma simile ad un fungo che entra nell’oceano Atlantico e disegna due golfi dove ogni anno le balene franche australi fanno tappa per accoppiarsi, partorire, svezzare i piccoli, prima di migrare verso l’Antartide all’inizio dell’estate.
L’oasi è abitata da gruppi di orche, colonie di elefanti e leoni marini, famiglie di petrel, cormorani, gaviota, pinguini, fenicotteri. Nell’entroterra della steppa vivono branchi di nandù e guanachi, nella bassa vegetazione trovano tane cavie, marà, armadilli e vipere, in aria si librano gipeti e caracara.
La biodiversità e i paesaggi sono di ineguagliabile incanto e meraviglia, il forte vento una compagnia costante.

Il viaggio nella penisola di Valdés è stato l’incontro con una natura potente e selvaggia, l’attraversamento di un’area che ha qualcosa di autentico, di così poco antropizzato da sembrare a tratti un territorio vergine.
Oltre l’istmo della penisola scompare la connessione telefonica, non vi è corrente elettrica, tutto si distende e si muove secondo le regole proprie della natura.
È vietata qualsiasi interazione umana con il luogo e lungo le uniche tre strade presenti vige il divieto di scendere dai mezzi di trasporto, gestiti da guide e tour operator. Durante la visita è permesso solamente affacciarsi su terrazzamenti predisposti per l’osservazione e percorrere brevissimi sentieri trincerati.
L’affaccio a Caleta Valdés è mozzafiato, l’oceano che si spalanca davanti è un’immagine celestiale e indimenticabile. La spiaggia è un fermento di vita, popolata da elefanti marini stesi a prendere il sole che grugniscono in modo molesto. L’orizzonte, alto, sfiora la curvatura di una visione aerea, diventa prossimo ad un’eternità.
La strada di ritorno, perfettamente perpendicolare al paesaggio ha qualcosa di ipnotico, simile ad un’astrazione stratosferica, si prolunga nella steppa a perdita d’occhio in una monotonia senza interruzione. Solo qualche nube di polvere di tanto in tanto si alza raccolta dal vento, tutto resta in uno stato di costante attesa dove nulla accade.

L’osservazione dal vivo delle balene, dalla spiaggia Las Canteras e Punta Flecha, è stata una vera e propria presa di consapevolezza della proporzione, della scala, del senso di misura che questi cetacei esercitano sull’umanità.
Quando si chiede ad un bambino quanto è grande una balena, risponde “è grande così!” aprendo tutte le braccia. È esattamente quella misura! Quel “così!”, è quella forma che tutto contiene, è la volta celeste, un abbraccio, un tentativo di volo, è qualcosa di sovradimensionato, smisurato e totale.
Vedere, ad una cinquantina di metri dalla riva, un esemplare adulto, nero, una madre di circa 17 metri, con un peso che si aggira intorno alle 45 tonnellate, emergere con a seguito un cucciolo bianco di circa 5 metri, che le gioca intorno, sfiorandola, salendole sulla schiena, girandole attorno, è un’immagine di umiltà, di pace e di maternità che è esorbitante e incommensurabile.
L’espirazione che produce è potente, come un colpo di aria pressurizzata che scorre violenta dentro un tubo cavo e i corrispettivi getti di vapore che si aprono a V sopra le onde si vedono a km di distanza.
L’andatura che mantiene nuotando è placida e ondulatoria, con movenze morbide e sinuose, scivola a filo d’acqua emergendo con la testa incrostata di callosità, inarca la schiena, sprofonda velocemente per riapparire non lontano.

Altrettanto intensa è la bellezza della colonia dei leoni marini a Punta Loma, dove decine di esemplari restano stretti contro una scogliera bianchissima decorata dalle nidificazioni dei cormorani neri, il cui guano la dipinge di colature brillanti.
Un ammasso stipato di esseri viventi attende che la marea si ritiri per trovare tregua dal flagello del vento e delle onde che senza scampo sbattono, percuotono, annaffiano.
In fondo, dietro ai maschi, dietro alle madri, dietro ai giovani, i cuccioli stanno rannicchiati contro la falesia, un bastimento di familiari li protegge e li custodisce: è un’immagine di immensa saggezza ancestrale.
Il verde delle alghe triturate dalla mareggiata, si mescola con la spuma delle onde e lo spettacolo di queste cangianze colora l’antro di una luce piena di vita.

I suoni registrati, i video, le foto, i contatti presi con le guide del posto hanno costituito il nucleo centrale della ricerca e sono diventati il fulcro delle principali suggestioni del componimento sonoro.
Nelle varie tracce sono entrati gli sbuffi e i barriti delle balene, i fragori delle onde, i boati del vento, i ruggiti dei leoni marini, le grida delle gaviota.
Una vera e propria pluralità di voci che in una biofonia tenta di raccontare il mistero di un esistente che pare aver escluso l’umanità.

 

***

 

AH, STRAZIANTE, MERAVIGLIOSA BELLEZZA DEL CREATO.[1]

Un momento tanto intimo quanto vertiginoso è stato quello che ho vissuto alla Playa el Doradillo, dove ho provato una sensazione mai percepita prima in vita. Una sorta di strana commistione tra commozione e incapacità di elaborare l’immediata circostanza, come se la bellezza dell’ambiente per un attimo mi avesse paralizzato, completamente spaesato e travolto.
Mi è capitato delle volte, soprattutto alla fine di lunghe scalate in montagna, di restare attonito di fronte ad una luce, ad un istante di purezza, ma c’era sempre un compagno di cordata.
Mi sono trovato qui invece completamente solo, in una spiaggia profonda trecento metri, larga circa quattro o cinque km, senza alcun segno di passaggio umano, scosso dal vento, dall’azzurro infinito dell’oceano e dall’azzurro infinito del cielo. Dietro di me si distendeva la steppa, davanti avevo solo due pinne caudali di balene che emergevano e ondeggiavano.
Sono mancato a me stesso, mi sono chiesto se ero io, se ero vivo, se tutt’intorno era vero. Per un attimo, senza parole, sono entrato in una dimensione sconosciuta, come un passo dentro un oltre.

[1]“Ah, straziante, meravigliosa bellezza del creato”, diceva Totò alla fine di Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini nel 1967.

 

***

 

SOUNDSCAPE. BUENOS AIRES

L’impatto che la città di Buenos Aires ha avuto sul progetto è paragonabile ad un macigno che crolla dentro un fiume e ne devia il corso.
I presupposti di CORALE hanno subito un orientamento nuovo in relazione ad un’esperienza sensoriale che ha coinvolto un ampio spettro di frequenze, non direttamente udibili ma fruibili nella complessità percettiva che coinvolge tutto il corpo, dalla superficie epidermica alle profondità delle viscere.

Il fornaio rossiccio, uccello cittadino e nazionale, stampato sulle banconote da mille pesos, ha evoluto il suo canto in maniera sorprendente. Le frequenze del suo richiamo sono così alte da sovrastare il rumore onnipresente del traffico e il suo nido, simile ad un forno, fatto impastando terra e saliva, si trova ovunque: sugli alberi, sui monumenti, tra i tralicci pubblicitari, incastonato sopra i semafori, sui fianchi di tabelloni stradali. Anche nel bel mezzo di grandi snodi, dove corsie a doppio senso di marcia si incrociano, grida appena sopra le teste.
C’è un preciso effetto chiamato “Lombard” che spiega bene questo tipo di evoluzione.
Etienne Lombard era un otorinolaringoiatra francese che nei primi decenni del ‘900 studiò diversi fenomeni legati alla fonologia umana, come gli effetti di getti di aria sugli aviatori o le simulazioni di sordità negli operai.
Viene definito effetto Lombard quella tendenza del tutto involontaria e istintiva, di aumentare l’intensità della voce in presenza di rumore di fondo che interferisce con la comprensione della comunicazione. Lo sforzo e il cambiamento non riguardano solo l’intensità ma anche l’altezza, il ritmo e la durata sillabica. È un riflesso che si genera nel profondo del tronco encefalico ed è comune a tutti i vertebrati.
Per adattarsi alla pressione acustica del traffico, dei clacson, dei motori, degli sbuffi dei compressori degli autobus, dei sibili penetranti delle frenate, gli animali che possono auspicare ad una coesistenza con circostanze così artificiali e invasive sono quelli che riescono a storpiare la propria voce, ad attivare un’evoluzione compatibile al contesto.
Pena la sordità, l’ammutolirsi, l’incomunicabilità e la conseguente sparizione.

Una sinfonia profonda, prossima ad un’esperienza sismica, è la somma dei fruscii che sale ai cavalcavia che attraversano l’autopista Panamericana diretta a Vicente Lòpez.
Ho contato 20 corsie, escluse quelle di emergenza. In un fascio di parallelismi dieci salgono e dieci 10 scendono. Il ponte, in carpenteria pesante, vibra leggermente e la sensazione è davvero metallica. L’attrito di migliaia di pneumatici sul catrame dell’asfalto diventa una modulazione senza fine, tutta tesa a fluire, una sorta di mantra così denso da restituire una dimensione tattile, un determinato stato fisico.
È un vero e proprio terremoto mantenuto sul limite di una soglia critica, calcolato sull’indice di rottura di un materiale, sul valore di una resistenza sonora; è come accostare l’orecchio ad un binario parallelo al passaggio di un treno merci.
Mi tornano in mente alcuni articoli letti durante i periodi dei lockdown per il Covid-19, dove i sismografi avevano registrato una diversa attività tellurica nelle aree dove sorgono grandi città. Viviamo letteralmente immersi in una costante oscillazione, in una tensione, in una vibrazione prossima ad un’emergenza.

I palazzi che connotano lo skyline della città sono degli enormi diffusori di frequenze omogenee. Segnati da un bugnato di condizionatori, che come un’ipertrofia tecnica si sviluppano e si moltiplicano sulle facciate, gli edifici diventano degli agglomerati di speaker che emanano ronzii e mormorii che si sommano e rimbalzano nei palazzi di fronte.
Le strade diventano dei canyon che ospitano, addizionano e conducono questa intensa rifrazione acustica.
Oliver Sacks nel suo saggio intitolato “Musicofilia” porta numerosi esempi di come diversi pazienti affetti da allucinazioni sonore, ossessioni uditive o particolari forme di emicranie vengono trattati attraverso la somministrazione di “bagni” di frequenze pure, calibrate ad hoc, per cancellare impronte, alleviare disturbi, rimuovere tarli impressi nella memoria uditiva.
Non posso non pensare ad una condizione passiva, all’interferenza profonda che queste frequenze esercitano su una sfera psicofisica, a livello neuronale, individuale e collettivo.

Un ultimo aneddoto è legato al Pride, proprio per la sua dimensione tribale e la sua vocazione a mescolare timbriche, generi musicali, dimensioni corali.
L’energia è dilagante, piena di una necessità tutta umana, antica come il mondo, di stare insieme attorno ad una ritmica.
Avenida de Mayo fino al Palazzo del Congresso, si trasforma in un lungo corteo dove camion allestiti con generatori e cataste di casse audio mandano hip-hop, house, dance, techno, electro, rap, pop, acid, tormentoni modaioli e famose canzoni, tutto inframezzato da bande con balli folkloristici e musiche popolari. La carovana in un lento avanzare inesorabile lascia dietro di sé una scia satura di echi e di immondizia che ha il sapore di un ritiro da un campo di battaglia.

CORALE mescola le grida del fornaio rossiccio con i vagiti di un infante, ibrida i miagolii dei gatti in lotta con i versi delle orche, impasta le espirazioni delle balene con gli sbuffi dei compressori degli autobus, i fragori del vento della Patagonia con i fruscii di un’autostrada, altera le timbriche di lamentazioni rituali con noise omogenei che accentuano consonanti e cancellano frequenze, sormonta la voce gracchiante della moroloja con gli stridii dei parrocchetti dei parchi di Buenos Aires.
Il mixaggio è un continuo sovrascrivere, un travaso di analogie, allitterazioni, metonimie, metafore che spostano e slittano il senso, la decifrabilità e la comprensione del componimento.
Nel momento in cui si accenna un possibile riconoscimento, immediatamente si insinua un suo doppio, un’alterità perturbante, aperta a libere interpretazioni e a sforzi immaginativi.

 

***

 

POLENE AL MUSEO BENITO QUINQUELA MARTÌN.
NOTA A MARGINE

Le polene sono figure che hanno una particolare vocazione all’esposizione.
Esposizione intesa nella sua doppia accezione, quella di mostrare, mostrarsi, far vedere e quella di essere sospesi sopra un vuoto, pendere, essere pensili, in rilievo rispetto ad un asse, ad un piano, ad un orientamento.

I mascheroni decorativi da prua conservati al museo Benito Quinquela Martìn, nel quartiere di Boca, sono quasi tutti etichettati con l’anonimato. Non vi è un artista né una velleità artistica.
Sono figure simboliche nate sotto le mani di qualche raffinato artigiano, dove il tempo e le intemperie atmosferiche hanno agito lasciando impressa una grande lezione di pittura e di scultura.
Scolorite, stinte, erose e stropicciate dal vento, dal sale, dall’acqua, dalla luce, dalla stagionatura stessa del legno.
Hanno una propensione unica, quella di aggettarsi nello spazio con una singolare plasticità, come un gargoyle, avanzano e sondano una complessa tridimensionalità, sfidano lo spazio.
Alcune di loro sono agghindate ai fianchi con piccoli putti che con bocche dischiuse o circolari intonano un soffio, un suono, un canto pronto ad aprire una rotta, togliere l’inerzia, separare i venti e puntare all’avanti.
Solo apparentemente sorde e silenziose, sono come possedute da voci, hanno sguardi tesi all’orizzonte, all’infinito, volti presi in un attimo di veggenza, colti da un sogno premonitore.
Sono sirene il cui canto ha il futuro dentro, un altissimo senso di presagio e di speranza.