Texts

    Alberto Tadiello. The dark you lead me to.

    Piove. Nei boschi, nei campi e nei giardini inzuppati di acqua vivificante si formano stagni e fossati. Come per miracolo, arrivano le rane e i rospi, e cantano a squarciagola, per trovare le compagne. L’obbiettivo di questo disco è presentare i canti di 34 specie di rane: potreste così imparare ad apprezzare un fenomeno della natura solitamente ristretto a pochi appassionati conoscitori.

     È la voce di Peter Paul Kellogg che introduce all’ascolto di Voices of the Night, vinile di registrazione e ricerca etologica prodotta dallo stesso Kellogg e da Arthur A. Allen per l’Albert R. Brand Bird Song Foundation, presso il laboratorio di ornitologia del Dipartimento di Conservazione della Cornell University. Il vinile è stato pubblicato nel 1953, ed è la revisione di un precedente album a 78 giri con lo stesso nome uscito nel 1948. “Disco che, come l’album precedente, stupirà, divertirà, istruirà e delizierà coloro che lo ascolteranno”[1].

    (First came the flood

    Taking

    The never taken)

     Nella chiesa del Purgatorio di Matera risuona l’opera di Alberto Tadiello, Don’t You Lead Me to the Dark: un’installazione audio che ne abita l’architettura grazie a piccoli amplificatori avvolti nella plastica trasparente e disseminati nello spazio come agguati uditivi. Alberto Tadiello modula una rimessa in atto delle registrazioni di Kellogg e Allen, articolando l’evento dinamico del sentire in una stratificazione di loop. Il suono si allunga nell’ambiente come un’eco, si infila nella specificità architettonica e storica della chiesa, nei suoi materiali acusticamente riflettenti e assorbenti. Ne occupa la coda sonora, facendosi strada tra le cavità barocche, nei teschi “vuoti, sordi e risonanti”[2]. Le voci delle rane emergono dalle gole, abitano le cavità orali per espandersi, utilizzano il corpo e l’ambiente come cassa di risonanza. Tadiello manipola questa materia sonora, la estrae e la adagia sul riverbero della cupola ottagonale, sul tamburo circolare sorretto dalle colonne: “Ho lavorato con coppie di speaker disseminate nello spazio, che andavano a coagulare in un’unica atmosfera tutti i lavori presenti. L’audio di fatto riempiva la chiesa, saliva fino alla cupola e appariva imprevisto – spesso ai fianchi, o appena dietro. Era un puro vociare, gracidare, una giungla di vocativi, di loop, vagamente sinistra e spettrale. Versi e smorfie che aprivano libere associazioni, echi subliminali e comunicazioni ataviche”[3].

    Fuori c’è Matera, abbagliante, con la sua conformazione scavata, il suo andamento alveolare, i sassi bucati, plasmati dal tempo. Dentro c’è l’ombra fresca, invasa dai canti che emergono dalle rotondità di membrane e gole che si gonfiano e sfiatano come strumenti. La durata del respiro, il brusio che si espande in un volume scultoreo, radicato nella natura e trasmesso dalla tecnologia, restituito all’aria, alle cavità, alle profondità. Frequenze che si diramano nel vuoto e poi precipitano.

    (Then came your love

    Breaking

    The never broken)

    Le voci delle rane sono materiale sonoro naturale: crepitano, scricchiolano, fremono, sfarfallano, vibrano come droni acustici. Sono state nel tempo oggetto di numerose indagini nel campo della bioacustica e del field recording. Raymond Murray Schafer, compositore e autore del fondamentale volume Il paesaggio sonoro, le descrive così: “L’America del Nord possiede un’orchestra intera: il belare del rospo dalla bocca stretta, l’abbaiare della rana latrante, il pigolio della ranocchia di primavera, i trilli della rana grillo di palude e del rospo americano. Le più piccole tra le rane grillo di palude ronzano come degli insetti, la rana della prateria sembra un tamburo, un’altra varietà ancora russa, la rana verde suona il banjo, mentre la rana toro del sud rutta. Quando Julian Huxley visitò l’America e udì per la prima volta il verso di una rana toro, non volle credere che provenisse da una semplice rana: ‘Mi immaginavo piuttosto un mammifero enorme e feroce, tanto il suono era grave e potente’. Per i nordamericani le rane sono quello che le cicale sono per i giapponesi o per gli australiani. Le stridulazioni acute e risonanti del rospo del sud (Bufo terrestris) ricordano, senza dubbio, quelle di una cicala; i trilli sostenuti del rospo dell’ovest (Bufo cognatus), come risulta dalla registrazione, hanno avuto una durata di 33 secondi. Ma con il passare della notte, nella palude l’ardore decresce. La voce della rana toro cala d’altezza e uno alla volta, gradualmente, anche gli altri strumentisti svaniscono”[4].

    Murray Schafer ha osservato come i rumori prodotti dagli esseri viventi siano presenti in uno strato relativamente ridotto della crosta terrestre (circa l’1%) e allo stesso tempo come, all’interno di questo strato, la varietà sia straordinariamente ricca e di una complessità sbalorditiva. Il diario sonoro di Allen e Kellogg è una bibbia del come ascoltare, la restituzione raffinatissima di una piccola parte di questa ricchezza.

    Anche Chris Watson, membro fondatore dei Cabaret Voltaire e maestro del field recording, elabora riflessioni simili nel suo lavoro Stepping into the Dark, una raccolta di registrazioni ambientali e sonorità della natura, realizzate in diversi luoghi del mondo: “L’atmosfera è cambiata. Mentre ascoltavamo i rintocchi della rana del legno, siamo stati colpiti da un ritmo pesante, un muro di suono notturno. Le falene e gli insetti erano come posseduti: riuscivamo a sentire le ottave profonde del loro ruggito quando si avvicinavano di più al microfono. Sospetto che i suoni metallici fossero invece i richiami acustici dei pipistrelli”[5]. Il lavoro di Watson ha a che fare con lo spirito dei luoghi, con la relazione tra suono e memoria, con la capacità dell’ambiente acustico di rievocare immagini e sensazioni. Stepping into the Dark fa riaffiorare la presenza della notte e dell’oscurità, strutturando l’ascolto come esperienza intensa e consapevole, permeata da un senso di profondo rispetto per la natura e per la molteplicità delle sue espressioni.

    (Until even these teeth

    Started

    To Trembling)

     Nella chiesa del Purgatorio ci si muove in modo precario – come risvegliati all’improvviso dal coro di canti gutturali in una notte d’estate. Spaesati, si prova a seguirne la traccia, spostandosi per tentativi, lasciandosi attrarre e guidare – oppure ci si ritrae, coreografando un abbandono. La consapevolezza della dinamica tra corpo e spazio – tra interno ed esterno, natura e artificio – si fa più acuta.

    Nel suo seminale lavoro del 1969, I Am Sitting in a Room, il compositore Alvin Lucier sperimenta le possibilità acustiche di una stanza, leggendo un testo che viene registrato e riprodotto in successione, in un continuo dialogo tra suono e conformazione spaziale. È una riflessione struggente sulla vulnerabilità della voce umana, sul desiderio di controllare le irregolarità date dalla sua leggera balbuzie, disperdendole nelle frequenze della stanza, eliminando simbolicamente la sua stessa presenza, in favore del suono ambientale. La stanza accoglie, fa risuonare, partecipa all’esecuzione e, progressivamente, smaterializza la parola fino a distruggerla.

    “I am sitting in a room different from the one you are in now. I am recording the sound of my speaking voice and I am going to play it back into the room again and again until the resonant frequencies of the room reinforce themselves so that any semblance of my speech, with perhaps the exception of rhythm, is destroyed. What you will hear, then, are the natural resonant frequencies of the room articulated by speech. I regard this activity not so much as a demonstration of a physical fact, but more as a way to smooth out any irregularities my speech might have”[6].

    Le rane cantano da uno stagno, da una pozza d’acqua, alla fine di un temporale. Uno dei maschi guida il coro, come un direttore d’orchestra: conduce, e gli altri si aggiungono in sequenza. Altre volte mettono in atto un botta e risposta, richiami intermittenti che si innervano su un tema alternando trilli distaccati, ribollendo di abbài che gorgogliano nell’oscurità.

    (Oh mama

    Don’t you lead me

    To the dark)

    Le loro voci ricordano quelle umane: timbri e ritmi dei canti gutturali, come i katajjaq (canti di gola inuit) o il rekuhkara degli Ainu in Giappone. Sono pattern cavernosi e poliritmici, che hanno a che fare con il mantenimento del tono e con la durata, con forme complesse di espressione collettiva. Alberto Tadiello è interessato a un’idea di canto come linguaggio primordiale, che supera la subordinazione psicolinguistica e considera la voce puro strumento – un’intenzione, un elemento di riconnessione con l’ambiente e il non-umano. Un’interferenza. Nel suo studio sulle armi sonore, per esempio, Tadiello evidenzia l’utilizzo di frequenze, vibrazioni e volumi che possono essere percepiti dalle cavità corporee, influendo sulla stabilità e sul comportamento, provocando traumi potenzialmente letali. Le apparecchiature quasi primitive alle quali si ispira, come quelle messe a punto dall’esercito giapponese durante la Prima guerra mondiale, evocano immagini di archeologia industriale, strutture immaginifiche e ibride: parabole come orecchie, coni tesi a diffondere frequenze allo scopo di spaventare o confondere il nemico. Negli anni Trenta, anche Peter Paul Kellogg aveva contribuito alla ricerca e alla sperimentazione nell’ambito dell’amplificazione e diffusione del suono, partecipando allo sviluppo del primo riflettore parabolico, tecnologia successivamente utilizzata in ambito bellico.

    “Sono lavori che si riempiono d’aria, caricandola nei bacini dei compressori come in un grande ventre. Trattengono il respiro fino al limite del possibile e poi lo rilasciano con violenza, con forza. Le corde vocali dei clacson, sollecitate, vibrano. I tubi fanno scorrere poi quel respiro costretto, lo conducono e amplificano, sommandone stridori e fruscii. Gli imbuti finali, elegantissime bocche, permettono con garbo e decisione lo sfiato. Lo scaricamento. Lo sfogo. Fino in fondo. Fino al silenzio”[7].

    Nella chiesa del Purgatorio, Don’t You Lead Me to the Dark agisce per sottrazione al culmine del suo vociare. L’arrivo della notte smorza i canti, svuota le cavità, azzera i loop. Zittisce l’acufene e si sintonizza sul silenzio.

    Il silenzio.
    L’oscurità in cui mi guidi.

    (Oh mama

    Don’t you lead me

    To the dark)[8]

     

     

    [1] Arthur A. Allen, Peter Paul Kellogg, Voices of the Night – The Calls of 34 Frogs and Toads of the United States and Canada, Cornell University Records, 1953.

    [2] Alberto Tadiello, conversazione con l’autrice.

    [3] Ibid.

    [4] Raymond Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, Casa Ricordi, 1985.

    [5] Chris Watson, Stepping into the Dark, brano n. 5: River Mara at Night, 1997, www.chriswatson.com.

    [6] Alvin Lucier, I Am Sitting in a Room, 1969.

    [7] Dal sito www.albertotadiello.it, testo sull’opera 25L.

    [8] The Castanets, The Thaw and the Beasts, da Texas Rose, The Thaw and the Beasts, Asthmatic Kitty Records, 2009.

     

    Francesca Togni, Alberto Tadiello. The dark you lead me to, 2023